Lontani dall’inclusione
23/06/2021 Autore: Maria Moro
Secondo uno studio di Bain Italia aumentare la partecipazione delle donne al mondo del lavoro può pesare fino a 150 miliardi di euro di Pil. Gli ostacoli sono ancora molti.
Non sono positivi i numeri del coinvolgimento femminile nel mondo del lavoro in Italia. Il tema è noto, e recentemente si è arricchito dei risultati di uno studio sulla diversità e l’inclusione delle donne nelle imprese italiane realizzato da Bain Italia, che ha intervistato le prime linee di oltre 40 aziende che impiegano in totale, solo nel nostro paese, oltre 350mila dipendenti. Il titolo scelto è emblematico per rappresentare la situazione: “L’Italia non è (ancora) un Paese per donne”.
Ne esce infatti un ritratto poco lusinghiero, che va da un pay-gap tra i più alti d’Europa alla elevata percentuale di ragazze che scelgono altri paesi per mettere a frutto i risultati dei propri studi, fino al grande numero di donne qualificate che hanno rinunciato al lavoro, un dato che cresce in proporzione all’età e che non è giustificabile, in linea di massima, con la scelta di dedicarsi alla famiglia e ai figli se si considera che il tasso di natalità del nostro paese è il più basso d’Europa. La fragilità del ruolo delle donne nell’economia del paese si è palesato nel corso del 2020, quando i numeri hanno evidenziato in maniera inequivocabile che la crisi economica ha pesato principalmente sulle donne, la cui percentuale tra le persone che hanno perso il lavoro è più elevata di quella maschile.
Il tema ha un peso economico importante: secondo Bain per l’Italia la partecipazione delle donne al mondo del lavoro ha un potenziale compreso tra 50 e 150 miliardi di euro in termini di Pil.
Ciò nonostante l’incentivo alla partecipazione femminile sembra non tradursi ancora in scelte e direttive concrete: le opportunità di carriera e stipendio per le donne sono ancora inferiori rispetto a quelle degli uomini, con solamente 1 Ceo su 10 donna all’interno di società quotate e un pay gap medio nel settore privato del 21%, tra i valori più alti d’Europa e crescente con l’avanzare del percorso di carriera. Non differente la situazione in politica, con una quota di donne ministro e di parlamentari di 3 su 10. In questo contesto di ridotte prospettive, l’Italia perde anche la potenzialità di ragazze che hanno terminato i propri studi con successo e che scelgono di cercare opportunità all’estero, che evidentemente trovano visto che poi rientrano in misura inferiore agli uomini: tra i “cervelli in fuga” le donne sono il 20% in più degli uomini ma sono anche il 30% in meno tra coloro che dopo un periodo di esperienza decidono di rientrare in patria.
Andare oltre le quote rosa
Nel corso della tavola rotonda che ha seguito la presentazione dello studio, sono emerse alcune esperienze in controtendenza, attente all’inclusione femminile.
La linea di condotta ottimale è stata disegnata da Claudia D’Arpizio, Council di Bain & Company, secondo la quale, anche alla luce della sua esperienza di Global Head del Vertical Moda & Lusso e Board Member del DEI (Diversity, Equity & Inclusion), il cambiamento non arriva solo dal decidere di avere in azienda un 50% di donne a tutti i livelli, ma “vuol dire soprattutto creare le condizioni perché tutti i talenti abbiano le stesse possibilità di accesso alle opportunità e perché l’inclusività si mantenga nel tempo, permettendo a tutti di esprimere il proprio potenziale”.
In questa prospettiva, le “quote rosa” rischiano di diventare un intervento vissuto come un’imposizione – non scelto, quindi non partecipato – e, peggio, di facciata. Licia Mattioli, Ad Mattioli Spa, già VP Confindustria, ha sottolineato come le quote rosa, pur non essendo una soluzione, “hanno senz’altro favorito un’accelerazione nella trasformazione dei modelli e solo il combinato disposto dei due approcci – quello maschile e quello femminile – può portare ad una crescita delle aziende”.
Un’esperienza interessante è in corso presso Leonardo, azienda il cui peso è importante come testimonianza e ancor di più perché opera in un settore che è tradizionalmente considerato maschile: nel 2020, nonostante la situazione dovuta al Covid-19, Leonardo ha assunto 3.000 risorse, di cui il 23% di donne ma con l’obiettivo di arrivare almeno al 32% nel 2022. Come ha spiegato Simonetta Iarlori, Chief People, Organization and Transformation Officer dell’azienda, “questa scelta riflette un’inversione di tendenza, a cui stiamo finalmente assistendo e che vogliamo incoraggiare, di un settore tradizionalmente maschile. Le parole chiave sono formazione, engagement, elasticità degli orari di lavoro. Solo così possiamo uscire da una cultura del Novecento, basata sulla specializzazione estrema, e diffondere un modo di lavorare fondato su uno spirito di inclusione e collaborazione”.